Il ruolo dei genitori nel processo di cambiamento

Nella tabella (Sheridan, 2008) alcune delle principali capacità che il bambino possiede, a seconda dell’età, utile per non sottostimarne le capacità ed evitare di posticipare tappe che in realtà potrebbe già potenzialmente affrontare.

Spesso emergono, infatti, delle resistenze da parte degli adulti a lasciare che il bambino faccia da solo. Quando l’adulto affianca il bambino nelle attività quotidiane, dal vestirsi allo svolgimento dei compiti, gli evita di sbagliare e di non riuscire; tuttavia, gli impedisce anche di capire come fare autonomamente le cose, di autocorreggersi, di sperimentarsi, con conseguenze negative sulla sua autostima e sulla propria efficacia percepita.
Ovviamente, inizialmente il bambino cerca qualcuno che si sostituisca a lui perché così risparmia energie o evita situazioni spiacevoli, ma contemporaneamente si priva della possibilità di sperimentarsi come agente in grado di fare da solo, privandosi anche di tutte le soddisfazioni che ne conseguono. Inoltre, affiancandolo costantemente ed evitando al bambino ostacoli evolutivi inevitabili, gli si impedisce di mettersi alla prova, specie in situazioni nuove, rendendolo maggiormente vulnerabile (una volta che il controllo o la presenza dell’adulto non sarà più possibile).

Le evidenze scientifiche hanno sottolineato sempre di più il ruolo dell’ambiente nella maturazione del bambino, in particolare dello stile genitoriale e delle abitudini familiari, documentando l’influenza delle interazioni genitore-bambino sullo sviluppo cognitivo, emotivo, psicologico e comportamentale del bambino.

Diventa estremamente importante, in tal senso, individuare le strategie comunicative e pratiche educative più appropriate e funzionali per sostenere lo sviluppo psico-fisico e il ben-essere del bambino, nel rispetto delle sue potenzialità e specificità.

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SCREENING GRATUITO Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA)

A partire dal 5 giugno 2020, per tutti i venerdì  del mese lo Studio offre uno screening GRATUITO per l’individuazione di difficoltà negli apprendimenti di lettura, scrittura e calcolo, al fine di rilevare in maniera precoce studenti potenzialmente a rischio di presentare un DSA.  

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento, identificati con la sigla DSA, sono un gruppo eterogeneo di disordini, che implicano gravi difficoltà nell’acquisizione e nell’uso di abilità specifiche.

👌 Le raccomandazioni per la pratica clinica elaborate nell’ambito della Consensus Conference e pubblicate a fine gennaio 2007 sottolineano l’importanza di una individuazione precoce dei DSA, attraverso la predisposizione di adeguate procedure di screening e trattamenti preventivi.

I casi sospetti possono essere individuati quindi attraverso screening strutturati, che non rappresentano una diagnosi, ma possono indirizzare verso un approfondimento diagnostico. L’obiettivo dello screening è l’individuazione precoce di soggetti a rischio di DSA, al fine di intervenire in tempi brevi, limitando il disagio del bambino. Tale percorso è quindi rivolto ai bambini che frequentano i primi anni della scuola primaria.

È importante precisare che:

1. Lo screening non ha le pretese di evidenziare in modo inequivocabile un disturbo, ma di individuare, con un buon livello di attendibilità, i soggetti “a rischio”, ovvero i soggetti che possono potenzialmente presentare il disturbo. Occorre quindi precisare e ribadire che il rilievo di un punteggio di rischio non necessariamente è legato alla presenza di un vero e proprio disturbo destinato a persistere nel tempo. Come in tutti gli screening, è piuttosto un indicatore di una prestazione atipica, che merita attenzione e può suggerire l’opportunità di avviare un lavoro di potenziamento mirato al superamento della difficoltà.

2. Lo screening non è una diagnosi, piuttosto permette di indirizzare ad uno studio diagnostico una popolazione che presenta alcuni indici caratterizzanti (Paoletti & Stella, “Indici qualitativi di rischio negli screening sui disturbi specifici di apprendimento”, Dislessia, vol.1, gennaio 2008).

ATTENZIONE ❗❗❗ I posti sono  limitati.  Prenota subito

 Contatti:
👉 Dott.ssa Maria Irno Psicologa – Formata in DSA e Neuropsicologia dell’Età Evolutiva
📞    347 8672357
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Il Mutismo Selettivo

Oggi parliamo di mutismo selettivo; un disturbo d’ansia che si caratterizza per la costante incapacità da parte del bambino di parlare in situazioni sociali nonostante  sia in grado di parlare in altre situazioni.
Il termine “selettivo” indica per l’appunto che il bambino riesce ad esprimersi con determinate persone e in alcune circostanze nelle quali generalmente si sente sereno (solitamente l’ambiente familiare) ma mostra difficoltà in ambienti sociali in cui non si sente a proprio agio.
Il grado di persistenza è variabile: può verificarsi per alcuni mesi oppure mantenersi per diversi anni.
Una remissione completa del disturbo è presente nella maggior parte dei casi, tuttavia possono permanere difficoltà comunicative e relazionali.
I bambini con questo disturbo non danno inizio a un discorso e non rispondono se interpellati, si tratta di un disturbo caratterizzato da un’elevata ansia sociale. Nonostante i bambini con mutismo selettivo presentino, in alcune situazioni, un linguaggio adeguato, una minoranza può presentare anche disturbi linguistici.    

L’esordio in genere avviene prima dei 5 anni, anche se spesso non viene diagnosticato prima dell’ingresso nella scuola. Tra i fattori di rischio vi sono fattori temperamentali (come l’ affettività negativa o inibizione comportamentale), ambientali (come l’inibizione sociale dei genitori, che funge da modello per i figli) e genetici e fisiologici (è possibile vi siano fattori genetici comuni tra mutismo selettivo e disturbo d’ansia sociale).

Il mutismo selettivo va distinto dai ritardi o disturbi della comunicazione; nel mutismo selettivo il bambino parla in maniera fluente nelle situazioni e con le persone con cui si sente a suo agio. Nei disturbi della comunicazione si riscontrano difficoltà persistenti del linguaggio e della comunicazione. Da questo punto di vista il silenzio nel mutismo selettivo è una strategia utilizzata per controllare e gestire l’ansia provocata dai contesti nuovi e/o dalle situazioni sociali. Spesso i due quadri possono presentarsi insieme, le difficoltà percepite nell’eloquio orale quindi provocano un incremento dei livelli di ansia e il mancato ricorso del canale verbale diventa una strategia per nascondere le difficoltà verbali (di cui il bambino è generalmente consapevole).

Il mutismo selettivo va differenziato dal disturbo d’ansia sociale (fobia sociale), per quanto i due quadri possano coesistere insieme; nel disturbo d’ansia sociale il soggetto manifesta paura o ansia marcata nelle situazioni sociali in cui si è esposti al giudizio degli altri. Tali situazioni tendono inoltre ad essere evitate o sopportate con ansia o paura intense     

Il mutismo selettivo, va differenziato inoltre anche dall’autismo (disturbo dello spettro autistico). I due quadri clinici condividono lo scarso o assente contatto oculare, l’inespressività del viso, l’immobilità, l’agitazione, elementi che rappresentano un tentativo per controllare l’aumento di ansia. Alcuni possono mostrare ritiro quando qualcuno si avvicina a loro oppure quando vengono toccati. (Spesso questa reazione fisica veniva interpretata come conseguenza di un abuso subito, mentre in realtà sono comportamenti che derivano da uno stato di intensa ansia). I soggetti che soffrono di autismo si caratterizzano principalmente per una compromissione dell’interazione e comunicazione sociale, nell’autismo inoltre si osservano spesso comportamenti ripetitivi (stereotipati), interessi insoliti, circoscritti e assorbenti e ipersensibilità sensoriale.         

Il mutismo selettivo va differenziato dal disturbo oppositivo-provocatorio (per quanto i due quadri spesso possano presentarsi insieme). Il silenzio, il non prendere parte alle interazioni può essere infatti essere impiegato dal bambino come tentativo per manipolare/controllare la relazione o come forma di atteggiamento passivo/aggressivo per terminare una interazione verbale da lui non gradita. Nel disturbo oppositivo-provocatorio quindi il “mutismo” è una strategia meno pervasiva  e meno persistente e si accompagna ad altre caratteristiche comportamentali specifiche (umore collerico/irritabile, atteggiamento ostile, provocatorio, vendicativo, con tendenza a sfidare o irritare deliberatamente gli altri, e a rifiutarsi di rispettare le richieste o regole degli adulti).

Va da sé che il mutismo selettivo, per quanto spesso possa progredire in maniera positiva spontaneamente, rappresenta una condizione che può interferire in maniera importante, ad esempio, con i risultati scolastici o con la comunicazione sociale; fallimenti nell’ambito delle interazioni sociali o nelle prestazioni scolastiche possono a loro volta influenzare negativamente la percezione che il bambino ha di sé (autostima) e le convinzioni/credenze rispetto alle proprie capacità (auto-efficacia percepita).    
L’iter diagnostico è quindi estremamente importante, al di là dell’individuazione di un’etichetta diagnostica permette di individuare strategie di intervento efficaci, al fine di favorire una maggiore apertura nelle situazioni sociali, diminuire i livelli di ansia e incrementare l’investimento del canale verbale.

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La Comunicazione : Caratteristiche Generali

La comunicazione è un fenomeno complesso, che non si esaurisce nel passaggio di informazioni e non prevede una registrazione meccanica di contenuti, ma mobilita risorse di natura cognitiva, emotiva, sociale. La comunicazione comprende qualunque tipo di scambio dotato di senso che gli individui intrattengono nel sistema sociale attraverso segni e simboli che definiscono interattivamente il loro ruolo sociale.
È importante precisare come l’individuo può scegliere come e cosa comunicare, ma non può scegliere di non comunicare: durante uno scambio tra emittente e ricevente, infatti, qualunque messaggio, verbale o non verbale, o anche l’assenza di un messaggio è comunque una risposta significativamente comunicativa. La comunicazione rappresenta non solo una condivisione, una partecipazione e un collegamento, ma implica anche una costrizione attiva della conoscenza, mediante inferenza, negoziazione e feedback. Nel corso degli anni, varie sono le teorie che hanno illustrato le dinamiche comunicative (il modello di Lasswell, la teoria dell’informazione di Shannon e Weaver, il modello di Jerbner, il modello di Jacobson,…).         
Un’analisi più approfondita degli effetti della comunicazione sarà compiuta soltanto successivamente, nell’ambito della Pragmatica della Comunicazione della Scuola di Palo Alto, che elabora un modello di comunicazione circolare. Palo Alto è una piccola città a Sud di San Francisco dove, nella seconda metà del Novecento, si riuniscono un gruppo di studiosi di varie discipline come antropologi, linguisti, sociologi, matematici, psichiatri, che fanno capo all’antropologo e filosofo Gregory Bateson, a Ervng Goffmann ed Hedward Hall e agli psichiatri Don Jackson, Albert Scheflen e Paul Watzlavick. Si sviluppa un nuovo modello definito “sistemico”, secondo il quale è impossibile isolare il soggetto dal contesto di relazioni in cui è inserito. Ciascuno vive infatti all’interno di reti di relazioni che lo influenzano e a sua volta influenza gli altri con cui entra in contatto. Ogni comportamento produce un comportamento sugli interlocutori, per cui risulta riduttivo considerare la comunicazione come un processo unidirezionale e lineare. Occorre trattarla come un processo circolare, che parte da un soggetto, giunge ad un altro e torna nuovamente al soggetto di partenza (feedback).      
Nel 1967 è stata pubblicata un’opera importante nello studio delle interazioni e delle modalità di comunicazione, scritta da Paul Watzlavick, Janet Beavin e Don Jackson, intitolata “Pragmatica della comunicazione umana”, in cui vengono descritte numerose nozioni teoriche ed esperimenti sul campo circa le interazioni, le modalità di comunicazione e le possibili conseguenze patologiche. Secondo gli autori lo studio della comunicazione umana può essere suddiviso in tre settori: Sintassi, che studia le problematiche legate alla codifica e alla decodifica dell’informazione; Semantica, che studia il significato degli elementi della comunicazione per i comunicanti; Pragmatica, che studia gli effetti e l’influenza della comunicazione sui comportamento dei comunicanti.         
All’interno dell’opera sono posti gli assiomi della comunicazione, che sono “verità autoevidenti”, cioè principi che non richiedono ulteriori dimostrazioni in quanto sono essi stessi fondanti. Essi sono, cioè, i presupposti basilari, i fondamenti della comunicazione. Gli assiomi sono 5.

➀.Primo Assioma: “È impossibile non comunicare”. Anche quando non si utilizzano parole, attraverso il comportamento si inviano comunicazioni agli altri, poiché il fatto stesso di non voler parlare, è un modo di rivelarsi, in quanto rivela la volontà di non rivelarsi. Il primo assioma inizia a sottolineare dunque l’ampliamento dei canali di comunicazione utilizzabili per esprimere un messaggio, non riducibili quindi al solo canale verbale.

➁.Secondo Assioma: “Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione, in modo che il secondo classifica il primo ed è quindi “metacomunicazione”. Il contenuto del messaggio non è sufficiente per la comprensione da parte dell’interlocutore. Affinché il messaggio risulti chiaro, deve essere accompagnato da una specifica intonazione, un’espressione del viso, che possa specificare l’intenzione di colui che parla. Il contenuto è l’informazione che si vuole trasmettere, mentre la modalità con cui lo si comunica è definita metacontenuto: letteralmente significa “che va oltre il contenuto”, include cioè l’insieme delle modalità con cui viene espresso e possono variare sensibilmente il significato del messaggio.

➂.Terzo Assioma: “La natura della comunicazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione fra i comunicanti”. Come nel linguaggio, senza l’interpunzione, risulta difficile strutturare e cogliere il significato del testo, allo stesso modo, una comunicazione chiara è una comunicazione con una punteggiatura condivisa dagli interlocutori, che individui con chiarezza l’inizio del discorso e distingua le cause dagli effetti. Senza una punteggiatura precisa, cioè senza un accordo tra i messaggi da considerare come premesse e le conseguenze, tra le cause e gli effetti, tra il prima e il dopo, la comunicazione è ambigua e conflittuale. Tuttavia, risulta molto difficile punteggiare le sequenze in modo unanime: questo problema si contestualizza all’interno della più ampia questione del “feedback” o “retroazione”, cioè dell’effetto che ha la risposta dell’interlocutore su colui che aveva posto la domanda, cioè l’utilizzo dell’informazione di ritorno: tutte le comunicazioni effettuate, poi ritornano al mittente, influenzando i suoi successivi comportamenti. Dopo aver espresso un contenuto, si esamina l’effetto prodotto e quindi si regolano in base a ciò le iniziative successive: ciascuno influenza ed è a sua volta influenzato, per cui risulta difficile fissare delle punteggiature rigide.

➃.Quarto Assioma: “Gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico sia con quello analogico”. Il “modulo numerico” è il linguaggio verbale, invece il modulo “analogico” è il linguaggio non verbale. Ciascuno comunica ricorrendo in varia misura e in base alle circostanze a ciascuno dei due canali, quello linguistico e quello corporeo. Le emozioni si esprimono prevalentemente attraverso il canale non verbale. Tuttavia, occorre sottolineare come il linguaggio non verbale sia “privo di semantica”: il linguaggio parlato e scritto segue una sintassi, regole grammaticali precise, ogni parola possiede un significato condiviso, invece il linguaggio del corpo è ambiguo ed equivoco, i gesti non sono riconducibili ad un unico significato e non sono facilmente decifrabili. Risulta inoltre una modalità espressiva meno controllabile.

➄.Quinto Assioma: “Gli scambi comunicativi sono simmetrici o complementari, a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza”. Gli interlocutori occupano un grado gerarchico diverso: le comunicazioni simmetriche avvengono tra persone di pari grado, come tra amici, compagni di classe, colleghi di lavoro, invece le comunicazioni asimmetriche avvengono tra soggetti che non si trovano sullo stesso piano per quanto riguarda il potere, l’autorità.

Tutto questo per sottolineare come la comunicazione non avviene solo esclusivamente attraverso il detto (verbale) o il non detto (anche l’assenza di comunicazione comunica qualcosa, il desiderio di non voler comunicare) ma anche attraverso il non verbale. Negli anni 60-70’ si sosteneva che meccanismi di comunicazione disfunzionali potessero essere alla base di problematiche emozionali importanti. Bateson nello specifico parlava di “doppio legame”, cioè un messaggio contraddittorio ed incongruente sul piano verbale e non verbale che confonde e “paralizza” il destinatario della conversazione. Un esempio riportato da Bateson è quello di una madre che, dopo un certo tempo, rivedendo il figlio ricoverato per disturbi mentali reagisce al suo abbraccio irrigidendosi (messaggio non verbale o comunicazione implicita) e, quando questi giustamente si ritrae, afferma “Non devi avere paura di esprimere i tuoi sentimenti” (messaggio verbale o comunicazione esplicita). Nel doppio legame, il destinatario della comunicazione viene paralizzato di fronte all’incongruenza del messaggio, al contempo non può non reagirvi, dunque anche la sua reazione risulterà altrettanto paradossale e incongruente. Un’esposizione ripetuta a meccanismi di doppio legame poteva, secondo l’autore, portare all’esordio di una schizofrenia.            
Successivamente, questa ipotesi è stata respinta, in quanto risultata riduttiva, anche se tutt’oggi si riconosce che possano strutturarsi pattern di comunicazione disfunzionali che vengono rinforzati nel tempo, fino ad autoalimentarsi, contribuendo a generare la patologia. Di per sé, tuttavia, non sono sufficienti a determinarla, poiché la causa è da ricercarsi nell’interazione  tra diversi fattori, sia biologici, sia psicologici, sia familiari, sia sociali.


Indipendentemente dall’insorgenza di una patologia, bisogna riconoscere come pattern di comunicazione disfunzionali tra madre-bambino (o volendo ampliare il discorso, all’interno della famiglia) possono compromettere non solo il clima affettivo, ma anche la possibilità da parte del bambino di acquisire strategie adeguate per comunicare ed esprimere i propri bisogni, le proprie emozioni, le proprie intenzioni. Tutto questo si ripercuote sulla capacità del soggetto di stabilire e mantenere adeguatamente relazioni interpersonali, aspetto che non può non influenzare la concezione che il soggetto costruisce e struttura continuamente nei propri confronti e nei confronti del mondo.

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Disturbo di Lettura: Ipotesi Eziopatogeniche

La lettura è un’abilità piuttosto complessa così come è altrettanto complessa ed eterogenea l’espressività del disturbo di lettura.         
I modelli eziologici proposti rispecchiano l’elevata eterogeneità nei profili cognitivi dei bambini con Dislessia (o Disturbo Specifico dell’Apprendimento con compromissione della Lettura); la difficoltà di lettura può manifestarsi isolata o in associazione a difficoltà visuopercettive, fonologiche, attentive o di memoria. Per spiegare tale eterogeneità, nel corso del tempo sono stati proposti deficit alla base della dislessia che riguardano l’una o l’altra modalità sensoriale.

Qui di seguito le principali ipotesi eziopatogenetiche formulate in merito ai meccanismi deficitari sottostanti, al fine di spiegare le difficoltà tipiche della dislessia.

Ipotesi del Deficit Magnocellulare : Numerose evidenze empiriche hanno mostrato nei bambini dislessici anomalie strutturali e funzionali a carico del sistema visivo magnocellulare, il sistema M (Stein, 2001). Questo sistema si connette al lobulo parietale superiore (circuito visivo dorsale del dove) e contribuisce all’analisi del movimento e all’elaborazione spaziale per il controllo dell’azione. Durante la lettura il sistema M controlla i movimenti oculari verso la parola o le sue parti, ciò spiega anche perché il funzionamento difettoso di tale sistema provochi soprattutto una difficoltà nella lettura delle non parole, interferendo quindi con il funzionamento della via fonologica (Cestnick & Colheart, 1999). L’attivazione della via fonologica infatti richiede una fase precoce di segmentazione della stringa di lettere nei grafemi corrispondenti e tale operazione sarebbe controllata, per l’appunto, dal sistema M. Numerose evidenze empiriche mostrano come questo tipo di analisi visuo-spaziale opererebbe non solo su stimoli visivi ma anche su informazioni uditive (Barret & Hall, 2006). In effetti, l’esistenza di una “via uditiva M” potrebbe spiegare le difficoltà che molti bambini dislessici hanno nell’elaborazione di stimoli uditivi (linguistici e non) presentati per breve tempo o in rapida successione (per una rassegna cfr. Tallal, 2004). Pertanto un deficit del sistema M interferirebbe anche con la percezione dei fonemi e dunque con il normale sviluppo dei processi di analisi fonologica giustificando le difficoltà di lettura dei bambini dislessici (Cornoldi, 2007).

Ipotesi del deficit generale dell’elaborazione multisensoriale : L’ipotesi del deficit magnocellulare, per quanto convincente, si scontra con una serie di evidenze empiriche. Non solo molti soggetti  con dislessia non presentano deficit specifici del sistema M, ma alcuni mostrano addirittura prestazioni alterate in compiti non M, sia nella modalità visiva sia in quella uditiva (Roach & Hogben, 2004; Sperling et al., 2005).
Questi e molti altri studi supportano l’ipotesi di un deficit nell’elaborazione percettiva alla base della dislessia. Da anni è noto che bambini con dislessia presentano una difficoltà nell’elaborazione di stimoli visivi quando seguiti immediatamente dalla presentazione di un distrattore, quest ultimo provocherebbe un’interferenza nell’elaborazione del segnale (Di Lollo, Hanson & McIntyre, 1983). Difficoltà nella capacità di isolare i rumori dall’elaborazione del segnale rilevante potrebbe spiegare i noti disturbi fonologici solitamente presenti nei bambini con dislessia (Sperling et al., 2005).
Inoltre, i bambini dislessici sono maggiormente disturbati, rispetto ai normolettori, anche da maschere laterali presentate contemporaneamente al segnale da riconoscere, sia nella modalità visiva (Atkinson, 1991; Spinelli et al., 2002; Pernet et al., 2006) che in quella uditiva (Geiger et al., 2004). Tale fenomeno è noto come mascheramento laterale o affolamento.   
Perfino la capacità specifica di percepire il movimento di uno stimolo visivo è stato reinterpretato alla luce di questa ipotesi eziologica più recente. In uno studio di Sperling e colleghi del 2006 è emerso come in un compito di movimento coerente di punti i bambini e gli adulti con dislessia rispetto ai controlli manifestano difficoltà esclusivamente nella condizione in cui il rumore è elevato, riuscendo tanto quando i controlli nella condizione in cui il rumore è ridotto.       
Nel ricercare lo specifico ruolo del sistema M nei processi di lettura autori come Vidyasagar (1999) sostengono che il sistema M, mediando le funzioni  di selezione (attenzione spaziale) dalla corteccia parietale posteriore, sia in grado di guidare e controllare il sistema P (ventrale). Secondo tale ipotesi sarebbe proprio l’attenzione spaziale focalizzata a regolare il flusso dell’elaborazione delle informazioni visive necessarie per la decodifica dell’esatta sequenza di lettere che costituiscono le parole, e delle parole che costituiscono l’intero testo (Casco, Tressoldi & Dellantonio ,1998; Vidyasagar, 1999).

Ipotesi del deficit di attenzione spaziale a seguito di un deficit M  : La lettura può avvenire secondo due modalità (Colther et al., 2001): la via sublessicale (fonologica) che si basa su regole di conversione grafema-fonema e la via lessicale (diretta) che si basa sul riconoscimento visivo immediato dello stimolo.  Chiaramente, per un bambino che sta imparando a leggere, ogni parola, all’inizio, costituisce una non parola. Molti studi confermano come i bambini nell’acquisizione dell’abilità di lettura usano principalmente la via sublessicale, a conferma di ciò le difficoltà di lettura si associano ad un meccanismo di decodifica fonologica estremamente lento (Ziegler et al., 2003). 
È possibile ipotizzare che l’orientamento automatico dell’attenzione giochi un ruolo cruciale nell’apprendimento della lettura (Facoetti et al, 2000). La via sublessicale, infatti ancor prima dei meccanismi di conversione grafema-fonema e di memoria-sintesi fonologica, prevede una segmentazione grafemica, ovvero una segmentazione della stringa di lettere che costituisce la parola nei suoi grafemi corrispondenti (Colther et al., 2001). Lo stesso assemblaggio fonologico implica un progressivo ancoraggio e disancoraggio dell’attenzione spaziale. Il ruolo dell’attenzione spaziale è confermato  anche in molti studi che hanno dimostrato come i bambini dislessici che hanno una difficoltà nella lettura delle non parole (quindi una “immaturità” a carico della via sublessicale) mostrano un deficit selettivo nell’orientamento dell’attenzione da sinistra verso destra, suggerendo che una finestra attenzionale troppo larga verso destra possa compromettere il meccanismo di segregazione grafemica rallentando la via sublessicale e di consequenza anche la maturazione progressiva della via lessicale.           
Non bisogna dimenticare che molti studi hanno evidenziato nei bambini dislessici una difficoltà nell’isolare dall’elaborazione stimoli irrilevanti (Sperling et al., 2005; 2006), tale difficoltà è attribuibile per l’appunto alla debolezza nei meccanismi attentivi di orientamento e focalizzazione. Il disturbo nell’attenzione spaziale nei bambini dislessici non sembra riguardare esclusivamente la modalità visiva ma anche quella uditiva; molti bambini dislessici hanno ad esempio anche difficoltà nel discriminare suoni simili (Tallal, 2004) e nell’elaborare suoni presentati in rapida sequenza (Renvall & Hari, 2002).           
Un deficit a carico dell’attenzione visuo-spaziale può quindi spiegare le difficoltà a carico del meccanismo di segregazione grafemica, alla base della lettura sublessicale, e le difficoltà nella segregazione fonemica/sillabica alla base della percezione, elaborazione e memoria fonologica interferendo in questo modo con il normale sviluppo dei processi di analisi fonologica provocando le difficoltà di lettura tipiche dei bambini dislessici (Cornoldi, 2007).

Ipotesi fonologica :  L’acquisizione della lettura è strettamente collegata allo sviluppo della consapevolezza fonologica e in particolare alla capacità di stabilire in modo efficiente un legame stabile tra fonemi e grafemi. Generalmente i soggetti dislessici hanno una prestazione deficitaria sia in compiti di discriminazione di fonemi che in compiti di consapevolezza fonemica (segmentazione e fusione dei fonemi). Molti studi longitudinali hanno, inoltre, dimostrato che molti bambini con disturbi specifici del linguaggio in età prescolare (37-75%) sviluppano successivamente difficoltà di lettura (Catts, Fey, Zhang, & Tomblin, 1999; Larrivee & Catts, 1999; Snowling, Bishop, & Stothard, 2000). Tali dati supportano la cosiddetta ipotesi fonologica, secondo la quale le difficoltà di lettura nella dislessia sarebbero riconducibili ad un deficit  primario e specifico nella codifica (cioè rappresentazione), nel recupero, nell’utilizzo e nella consapevolezza esplicita dell’ informazione contenuta nel lessico fonologico (Ramsus, 2003) a causa di una disfunzione a carico delle aree temporo-parietali di sinistra (Ramsus, 2004).
L’ipotesi fonologica, quindi, condivide con l’ipotesi del sistema M l’idea che il deficit fonologico sia il meccanismo responsabile delle difficoltà di lettura, ma nega che il danno primario sia costituito da un deficit percettivo/attenzionale.        
L’ipotesi fonologica, tuttavia rischia di spiegare solamente la causa prossimale o il puro effetto della dislessia (Cornoldi, 2007). Infatti, le abilità di lettura migliorano le rappresentazioni fonologiche, che a loro volta sembrano migliorare le abilità di lettura; lo stesso vale anche per le rappresentazioni ortografiche (Castles & Coltheart, 2004). Esisterebbe quindi una relazione bi-direzionale tra apprendimento della lingua scritta e consapevolezza fonologica. A questo punto diventa cruciale individuare la causa del deficit fonologico. Le aree corticali più direttamente coinvolte nell’elaborazione fonologica (le aree frontali inferiori e temporali) che nei bambini dislessici sono poco attive, per alcuni più che rappresentare la causa delle difficoltà di lettura sarebbero la conseguenza di un’alterata rappresentazione fonologica e ortografica (McCandliss & Noble, 2003). A conferma di tale chiave di lettura i bambini dislessici durante un compito di lettura in genere mostrano una iperattivazione a carico delle aree frontali inferiori e posteriori dell’emisfero destro, presumibilmente per compensare i deficit dei sistemi posteriori dell’emisfero sinistro (Pugh et al., 2001).

Ipotesi cerebellare : Alcuni dislessici mostrano difficoltà nell’apprendimento procedurale, nelle abilità motorie, nell’equilibrio (Fawcett & Nicolson, 1996) e nella stima del tempo (Nicolson, Fawcett & Dean, 1995). Si tratta di abilità riconducibili in qualche maniera tutte al cervelletto. L’ipotesi che nelle difficoltà di lettura possa essere coinvolto il cervelletto ha preso forma in maniera sempre più forte a partire dal 1999, quando un gruppo di studiosi  (Nicolson e colleghi) hanno iniziato ad analizzare il livello di attivazione del cervelletto durante compiti di apprendimento e di utilizzo di abilità sia linguistiche sia cognitive.   
Da questi studi è emersa una scoperta per molti stupefacente, il cervelletto non sarebbe collegato esclusivamente ad aree del  lobo frontale, responsabili di svariati compiti motori, ma è connesso anche ad alcune aree nell’emisfero sinistro, responsabili di numerose funzioni linguistiche, e soprattutto con l’area di Broca. Sarebbe quindi possibile ipotizzare che una disfunzione cerebellare possa avere implicazioni dirette anche sul processo di lettura in quanto, un deficit nel controllo motorio dell’articolazione dei suoni provoca rappresentazioni fonologiche inesatte e il difetto di automatizzazione rende lento il processo di conversione grafema-fonema (Nicolson, Fawcett & Dean, 1995).

Ipotesi della non efficiente connessione interemisferica : Un’altra ipotesi eziologica in voga alla fine del secolo scorso è stata quella interemisferica, in base alla quale le difficoltà con cui si manifesta la dislessia sono legate ad una comunicazione deficitaria tra i due emisferi a causa di alterazioni del corpo calloso. Quest’alterazione nella comunicazione  sembra caratterizzare molti bambini dislessici (Facoetti et al., 2000) e potrebbe essere alla base della disconnessione ipotizzata tra aree anteriori e posteriori dell’emisfero sinistro (Paulesu et al., 1996).

Nella pratica clinica si identificano generalmente fenotipi cognitivi differenti, motivo per cui la valutazione diagnostica deve inevitabilmente essere allargata ai diversi domini cognitivi implicati nella lettura, un passaggio indispensabile per poter delineare il profilo funzionale del soggetto ai fini di una progettazione e attuazione di interventi mirati alle specifiche difficoltà del singolo.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • Atkinson, J. (1991). Review of human visual development: Crowding and dyslexia. In: Cronly-Dillon, J., Stein, J. (Eds.), Vision & Visual Dysfunction, vol. 13: Vision & Visual Dyslexia, 44-57.
  • Casco, C., Tressoldi, P. E.  & Dellantonio, A. (1998). Visual selective attention and reading efficiency are related in cildren. Cortex, 34, 531-546.
  • Castles, A. & Coltheart, M. (2004). Is there a casual link from phonological awareness to success in learning to read?Cognition, 91, 71-111.
  • Catts, H. W., Fey, M. E., Zhang, X., Tomblin, J. B. (1999). Language basis of reading and reading disabilities : Evidence from a longitudinal investigation. Scientific Studies of Reading, 3, 331-361.       
  • Cestnick, L. & Colheart, M. (1999). The relationship between Language-processing and  Visualprocessing Deficits in Developmental Dyslexia. Cognition, 71,149-180.
  • Cornoldi, C. (2007). Difficoltà e disturbi dell’apprendimento. Bologna : Il Mulino.
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Quando i compiti diventano una lotta esasperante …


Alcuni bambini perdono tempo impiegando ore a fare compiti perché tendono ad intervallarli con altre attività, come infilare perline, sognare ad occhi aperti …. Altri rimandano all’infinito il momento di iniziare … Poi ci sono i bambini che fanno i compiti in fretta e furia. E non dimentichiamo i bambini insicuri, convinti di non potercela fare da soli.

E allora come si può fare per ottenere un minimo di adesione alle richieste? Evitando di punire, discutere, minacciare o insistere❓❓❓

Innanzitutto bisogna escludere la presenza di difficoltà specifiche dell’apprendimento; molti bambini con DSA preferiscono apparire pigri, oppositivi o disorganizzati, piuttosto che ammettere di non essere in grado di eseguire quanto richiesto. Tutto questo perché hanno paura di apparire “stupidi”.

È possibile aumentare la motivazione intrinseca allo studio e quindi la propensione personale a svolgere compiti premiando il comportamento di fare i compiti o, volendo utilizzare un linguaggio più tecnico, rinforzando questo comportamento, facendolo cioè seguire da una conseguenza positiva, desiderata immediata.
Il bambino/ragazzo, infatti ottenendo un vantaggio immediato a seguito dello svolgimento dei compiti sperimenterà tutta una serie di effetti collaterali positivi (o vantaggi secondari invisibili) che progressivamente aumenteranno la sua motivazione intrinseca.

Molti genitori temono che premiare lo svolgimento dei compiti rischi di impedire/ostacolare la crescita di un  autentico interesse verso le discipline scolastiche. La ricerca ha dimostrato tuttavia che le gratificazioni, quando sono ponderate, possono aiutare i bambini a raggiungere livelli più elevati di competenza personale. Gratificando il lavoro ben fatto i bambini imparano a lavorare bene e questo getta le basi per un rendimento positivo costante.

Come si passa dalle gratificazioni per lo svolgimento dei compiti alla motivazione intrinseca?

➊ Attraverso i programmi di gratificazione (noti anche come Token Economy) i bambini possono essere incoraggiati a sviluppare  le abilità di base necessarie per i successivi apprendimenti. Sentirsi capaci fin dall’inizio rende i bambini più disposti e pronti ad affrontare gli apprendimenti complessi tipici delle classi successive.

➋ Avendo sperimentato un’ampia gamma di vantaggi invisibili che si accompagnano ad un lavoro ben fatto, il più delle volte i bambini iniziano a scoprire quanto possa essere utile un po’ di impegno. L’approvazione che l’insegnante esprime, restituendo il compito corretto davanti ai compagni, è emozionante come un premio nobel. Grazie a queste esperienze inizierà a dare importanza all’apprendimento.

Nei programmi di gratificazione è anche importante prestare attenzione all’obiettivo che si intende raggiungere. Ad esempio:

➡️ Se i compiti rimangono regolarmente incompleti, la gratificazione dovrà incentrarsi sul far sì che vostro figlio si assuma la responsabilità di terminarli.

➡️ Se il problema sta nella qualità del lavoro svolto, allora dovreste specificare precisamente in cosa consiste un livello accettabile e gratificare i miglioramenti sul piano della qualità.

➡️ Se invece il problema è la procrastinazione, voi e vostro figlio dovrete concordare orari precisi per lo svolgimento dei compiti e trovare un modo per aiutare il bambino ad evitare distrazioni, in seguito, quando vostro figlio si impegnerà a sedersi alla scrivania per fare i compiti, potrete offrire la gratificazione.

➡️ Se il problema è riconducibile alla paura di non farcela da solo, sarà il caso di verificare più attentamente  se ha difficoltà di apprendimento tali da richiedere una valutazione e un intervento specifico o se ha semplicemente bisogno di imparare a fare a meno della vostra presenza.

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Educare all’Autonomia, Parte 2

In un precedente articolo abbiamo riflettuto su alcune possibili conseguenze dell’essere genitori eccessivamente apprensivi.

Qui di seguito alcuni suggerimenti per trasformare la propria eccessiva preoccupazione in un più funzionale coinvolgimento.

Per prima nei momenti in cui provate ansia per vostro figlio ponetevi le seguenti domande:

1. Questa situazione è realmente e obiettivamente pericolosa come io me la immagino?

2. Quanto è probabile che effettivamente succeda ciò che io temo?

3. E se succedesse sarebbe veramente qualcosa di irreparabile?

4. Questo mio stato d’animo mi aiuta a evitare che accada ciò che io temo?

Esatto! Per aiutare efficacemente vostro figlio a superare le sue ansie e i suoi timori è necessario quindi che voi stessi impariate a fronteggiare e superare le vostre paure.

Focalizzatevi sul presente. L’ansia è causata essenzialmente dal proiettarsi eccessivamente sul futuro. Capita infatti che vi soffermiate a rimuginare sulle cose peggiori che possono capitare e che finiate per convincervi che, siccome possono accadere, allora senz’altro accadranno. Provate a riportare la vostra mente sul presente; in questo modo potrete interrompere la spirale di pensieri negativi riguardanti possibili eventi futuri.

✘ Non cercate di essere perfezionisti. Ricordate che riuscire a fare qualcosa è più importante che farla perfettamente.

Esponetevi alle situazioni temute. Provate ad affrontare con passi graduali ciò di cui avete paura. Potete graduare la difficoltà, ad esempio, in base a quanto tempo vi esponete alla situazione temuta o in base alla difficoltà.  Abituatevi ad affrontare il rischio. Ogni volta che evitate qualcosa di cui avete timore, finite per rafforzare la vostra paura. Quando invece affrontate ciò che temete, la vostra paura si indebolisce.

Accettatevi con tutte le vostre paure e i vostri timori. Svalutarvi a causa del vostro stato d’ansia equivarrebbe a prendersi a schiaffi dopo essere inciampati e caduti in strada. È importante imparare ad accettarsi per come si è, con le proprie paure; in questo modo sarà molto più facile cercare di superare qualcosa che non si nega di avere (paure e ansie). Essere una persona ansiosa non fa diminuire il vostro valore come essere umano.

Questi suggerimenti non vi libereranno completamente dalle vostre preoccupazioni e dai vostri timori, ma è probabile che riusciranno a ridurre la frequenza, la durata e l’intensità della vostra ansia. In questo modo sarà più facile aiutare vostro figlio a superare le proprie paure e acquisire più fiducia in sé stesso.

In alternativa è possibile consultare uno specialista che vi sosterrà nell’affrontare situazioni difficili da gestire

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Educare all’Autonomia, Parte 1

Non è mai troppo presto per sostenere e incoraggiare l’autonomia nei bambini.  L’atteggiamento del genitore può fare la differenza nel modo in cui il bambino affronta le sue scoperte.

Perché è controproducente essere genitori eccessivamente apprensivi?

➊ Più si è in ansia per quello che può succedere e più è probabile che succeda veramente qualcosa di spiacevole. Quando si è troppo agitati infatti non si è in grado di agire al meglio e di prevenire efficacemente eventuali incidenti al bambino.

➋ Quando il bambino si sente ipercontrollato dal genitore è molto più probabile che si comporti in modo pericoloso non appena (finalmente!) si allenta la sorveglianza.

➌ Meno un bambino ha la possibilità di fare certe esperienze (vissute dal genitore come pericolose), meno ha occasione di imparare come cavarsela. Essendo quindi più maldestro, è più probabile che si caccerà effettivamente nei guai.

➍ I bambini utilizzano i feedback dei genitori come indizi per prevedere la propria capacità di riuscita. Un’eccessiva apprensione si ripercuote sull’autoefficacia percepita del bambino (se la mamma è così preoccupata, vuol dire che effettivamente non ne sono capace); nel conformarsi a tale aspettativa il bambino commetterà errori che confermeranno effettivamente la “previsione” del genitore, finendo per provocare una progressiva riduzione dell’autostima nel bambino (oltre che un’ulteriore apprensione nel genitore).

Se sei interessato/a a capire come trasformare la preoccupazione (spesso eccessiva) in un più funzionale coinvolgimento, clicca su QUI

In alternativa è possibile consultare uno specialista che vi sosterrà nell’affrontare situazioni difficili da gestire

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Difficoltà Scolastiche e Problematiche Emotivo-Comportamentali

Frequentemente i DSA si accompagnano a problematiche emotive e comportamentali; presentano spesso  “atteggiamenti, vissuti e sintomi di tipo depressivo”, a seguito dell’esposizione a reiterate esperienze fallimentari, che provocano, inoltre, la formazione di idee di sé auto svalutanti  (Pruneti & Baracchini Muratorio, 2001).

Un’alta percentuale di soggetti abbandona la scuola, riporta difficoltà di adattamento sociale, lavorativo, o svolge mansioni al di sotto delle proprie possibilità intellettive (Elliott & Place, 2001).

Stella (1999) sostiene che i DSA generano quasi necessariamente disagio, poiché l’insuccesso sperimentato dal soggetto si accompagna “alle rappresentazioni sociali” (ibidem, p.45) della difficoltà scolastica. 
Lo sviluppo di una forma di psicopatologia non è un esito inevitabile, variabili importanti risultano essere la segnalazione precoce, una presa in carico terapeutica valida e continuativa (Penge & Mazzoncini, 2001).

Un precoce riconoscimento del problema garantisce esiti prognostici più positivi: minore insorgenza di problemi psicologici spesso associati a bassa autostima, scarsa motivazione, senso di rassegnazione, ansia, depressione, ecc…, oltre a rendere possibile un intervento più tempestivo e quindi potenzialmente più efficace.

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Funzioni Esecutive e Apprendimenti Scolastici

Le risorse attentive, tutte, rappresentano il carburante di un’ulteriore  componente, superordinata, più recentemente ipotizzata: il Sistema Attenzionale Supervisore (Supervisory Attentional Sistem, SAS; Shallice, 2002), sovrapponibile al  Sistema Esecutivo teorizzato da Baddley (1986) e al Processore Centrale di  Moschovitch e Umiltà (1990).          
Il SAS ha il ruolo di coordinare il funzionamento di sistemi (o moduli) gerarchicamente inferiori implicati ciascuno nell’elaborazione di un tipo specifico di materiale (i sistemi schiave di cui è composta la memoria di lavoro di Baddeley  teorizzata nel 2003). In questo modo, è possibile allocare  una quota maggiore di risorse attentive ai processi ritenuti più rilevanti in un dato momento.
Per comprendere il concetto di modulo dobbiamo risalire alla teoria modulare di Fodor (1983). Essa si basa su tre principi fondamentali: prima di tutto, ciascun modulo è specificamente implicato nell’elaborazione delle informazioni di una determinata tipologia, inoltre, le informazioni sono incapsulate, nel senso che non esiste uno scambio di informazioni tra moduli e sistemi centrali e, per finire, l’uscita dal modulo non è cosciente.  In seguito Shallice (1988), ritenendo troppo specifici e limitanti gli assunti di Fodor, riprende la teoria di Marr (1982) per sottolineare come, per quanto i moduli siano sottosistemi isolabili e dissociabili, interagiscono tra loro. Più tardi la Karmiloff-Smith (1992) sottolineerà l’intervento dell’ambiente nei processi di “modularizzazione “(specializzazione).
Gli sviluppi modulari rigidi e indifferenziati sono stati in seguito rivisti nella teoria gerarchica di Moscovitch e Umiltà (1990), secondo cui è possibile suddividere i moduli in tre classi:
1) al primo gruppo (moduli di primo tipo) appartengono gli atti motori elementari e semplici come i riflessi e la percezione delle caratteristiche;
2) i moduli di secondo tipo sono formati dai moduli di primo tipo assemblati tra loro su base innata, come le abilità linguistiche, il riconoscimento degli oggetti e gli schemi motori;
3) al terzo gruppo (moduli di terzo tipo) appartengono moduli di primo e secondo tipo assemblati fra loro grazie all’esperienza, alla volontà e alle risorse attentive, ovvero gli apprendimenti e le abilità motorie complesse.        

Inspirandosi alla teoria modulare di Moscovitch e Umiltà (1990) e di Shallice (1986) in seguito Benso (2007) elaborerà il Modello del Continuum. Tale modello sottolinea il collegamento implicito ma continuo nel tempo tra modulo e sistemi centrali. Il Sistema Attentivo Esecutivo (SAS) nelle sue multicomponenti è parte integrante per la formazione e lo sviluppo dei sistemi modulari (apprendimenti). I moduli, infatti, per quanto possano raggiungere un certo grado di autonomia non saranno mai del tutto autonomi (Benso et al., 2013) : in situazioni nuove, difficili o in condizioni di forte emotività, il SAS interviene anche sui moduli iper-appresi. Quindi, l’efficienza di un modulo dipenderà non solo dall’integrità e dalla completa formazione del modulo stesso, ma anche dall’integrità del SAS, oltre che dall’integrità dei collegamenti tra moduli e SAS. Un SAS poco debole non permette il pieno apprendimento di certi moduli e quindi di certi apprendimenti, così come non può supportare a pieno il modulo in situazioni inaspettate o cognitivamente complesse. D’altra parte un modulo già degradato perifericamente può far risalire la debolezza ai sistemi centrali a lui dedicati. Di consequenza, per un apprendimento adeguato saranno necessarie l’attenzione esecutiva e un apporto modulare integro (E.Benso, 2011).

Sul piano dello sviluppo delle abilità possiamo quindi dire che gli apprendimenti complessi (la lettura, la scrittura, il calcolo), non saranno mai pienamente automatizzati, ma necessiteranno di essere ripresi e sostenuti dalle risorse. Una volta che  la lettura ha raggiunto un’efficiente automatizzazione (è divenuta cioè veloce e corretta, e non necessita più di grandi risorse per attuarsi) avrà sempre bisogno di un certo allenamento: se ci si fermasse del tutto, per anni, si rischierebbe, paradossalmente, un analfabetismo di ritorno (questo è quanto avviene anche per i pianisti che smettono di suonare per alcuni anni, all’inizio non riusciranno più a muoversi con la stessa praticità).

In generale si pensa che più intervenga il SAS, più le situazioni della nostra vita possono essere sotto controllo, ben pianificate e in sicurezza, e in generale è così, ma ci sono delle eccezioni: se il SAS interviene nel momento sbagliato può portare a esisti negativi; il sistema emotivo, infatti, può inserire o disinserire al momento non opportuno il SAS.
Bambini molto emozionabili falliscono spesso nelle prove di gestione delle interferenze (interrogazioni). Training cognitivi che rinforzano il sistema di controllo possono migliorare la gestione dell’emozione (Posner, Rothbart & Rueda, 2003). L’emotività positiva amplifica le risorse e migliora le prestazioni, mentre l’emotività negativa, oltre a deprimere i sistemi centrali può sia inserire il SAS nei momenti dove è utile il semplice automatismo (ad esempio ipercontrollo motorio nel dritto al tennis), sia disinserire il SAS nei momenti che necessitano di attenzione e consapevolezza, lasciando l’individuo in balìa degli impulsi più primitivi: l’attacco, la fuga, o l’immobilizzazione (scena muta ad un’interrogazione).

Qualche aspetto problematico del Sistema Attentivo Esecutivo lo troviamo sempre nei disturbi di apprendimento dunque possono correre in incidenti e blocchi emotivi; le stesse risorse attentive sono condizionate dalle emozioni, positive o negative, e dalla quantità di motivazione esercitata.       
Il SAS ha il compito di sostenere l’attenzione protraendo nel tempo la concentrazione di risorse su un compito. La buona notizia è che le risorse attentive, così come lo stesso SAS sono allenabili  attraverso adeguati training cognitivi tarati sul singolo.
Questo spiega perché l’intervento sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento si basa non son esclusivamente sull’abilità deficitaria (e quindi lettura, scrittura e calcolo), attraverso attività incentrate sul compito, ma prevede anche attività di potenziamento delle funzioni esecutive, attività di processo.


Nell’immagine la teoria gerarchica di Moscovitch e Umiltà (1990), tratto da E.Benso, 2011